Chi ha tempo non aspetti tempo

Letteratume
3 min readApr 6, 2021

Il nostro tempo libero è aumentato o diminuito? La tecnologia migliora la produttività?

E le relazioni umane?

Queste e altre domande costituiscono gli aspetti più dibattuti sugli effetti del capitalismo digitale e sono, in una prospettiva ampia e inedita, l’ossatura del saggio La tirannia del tempo di Judy Wajcman, edito da Treccani Libri con la traduzione di Daria Restani.

Cosa non è stato ancora detto sulla potenza delle ICT (Information and Communications Technology) e sulla loro pervasività nell’orientare le nostre azioni e i nostri comportamenti?

La sociologa della London School Economics, membro della British Academy e attiva da tempo nello studio dei rapporti tra lavoro, tecnologie e studi di genere, parte dall’idea (e quindi dal pregiudizio) che le nostre vite sono diventate sempre più frenetiche, accelerate, connesse, grazie alle molteplici possibilità offerte da telefono, Pc, internet e media classici.

Lo stereotipo generato da ciascuno di noi ci vedrebbe quindi come “persone sempre di corsa, prive di controllo sul proprio tempo e ostaggi dello smartphone”, eppure — dati alla mano — il nostro tempo libero è in costante aumento da almeno mezzo secolo.

La vera schiavitù, sostiene Wajcman, è quella del mito dell’accelerazione, creato ad arte da industria e produzione, da mezzi di comunicazione e industria dell’intrattenimento e talvolta da noi stessi. Ne consegue dunque una relazione problematica con le nozioni di tempo e velocità: non tutti risentiamo allo stesso modo di questa presunta accelerazione; i nostri rapporti dipendono solo in parte dalla tecnologia; non serve ridurre l’uso dei dispositivi multimediali e al contempo non è auspicabile un futuro iperconnesso.

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Per indagare a fondo queste tematiche, Judy Wacjman affronta un percorso che, partendo da sondaggi sulla società americana che si sente “ad alta velocità”, passa a una rivisitazione dell’avvento di tecnologie passate (il telegrafo, ad esempio, “riunì l’umanità intera su un unico e vasto progetto che le avrebbe permesso di vedere tutto ciò che viene fatto e sentire ciò che viene detto”) per mostrare che non necessariamente il passato è stato più lento e che il fascino della velocità era già presente sul finire dell’Ottocento. Tra i nuclei tematici presi in esame sono di particolare rilevanza anche le riflessioni sul tempo impiegato nel lavorare connessi e su quello speso nei rapporti interpersonali e, infine, sull’apparente velocizzazione dei lavori di casa ad opera delle tecnologie (microonde e lavatrice hanno un effetto marginale di fronte alla sbandierata accelerazione).

La tesi di fondo di un lavoro tanto utile quanto appassionante è che non è necessaria una soluzione “tecnica” ai nostri problemi di tempo, che ci conduca alla decelerazione o all’opposto a immaginare un futuro perennemente connesso, ma occorre un cambio di prospettiva “culturale” che riguardi la nostra capacità di essere sovrani sul tempo, consapevoli che anche attraverso questo recupero possiamo ambire a una vita buona e soddisfacente.

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