Come difendersi dal populismo e perché
«Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.»
Fahrenheit 451
Chiunque abbia a cuore la libertà e non tema di vedere “i pori sulla faccia della vita”, dovrà leggere Come sfasciare un paese in sette mosse di Ece Temelkuran: un prontuario di difesa contro l’insorgenza dei populismi e delle dittature, tanto più urgente e necessario alla luce della cronaca politica di questi giorni (leggi invasione turca della Siria e attacco ai curdi).
L’autrice vive in esilio, a Zagabria, proprio a causa delle sue posizioni anti-Erdoğan e in questo appassionato saggio, malgrado tutto, riesce a mantenere una carica di lucidità e sfrontatezza che può dare un’ulteriore accelerata al processo di svelamento delle mistificazioni di un regime.
Sì, perché proprio la Turchia è additata come esempio di Paese “sfasciato”, monito per quegli Stati pericolosamente indirizzati verso il baratro del populismo (gli Usa di Trump, l’Inghilterra pro-Brexit, Ungheria, Russia e — perché no — l’Italia pre-governo giallorosso) e accomunati da alcuni processi che devono essere opportunamente contrastati, se non addirittura prevenuti.
Come sfasciare un paese in sette mosse è dunque un antidoto per difendersi dai populismi nascenti e per prevenire quelli latenti, strutturato secondo sette direttrici così sintetizzabili: 1. Crea un movimento; 2. Disgrega la logica, spargi il terrore nella comunicazione; 3. Abolisci la vergogna: essere immorali è «figo» nel mondo della post-verità; 4. Smantella i meccanismi giudiziari e politici; 5. Progetta i tuoi cittadini e le tue cittadine ideali; 6. Lascia che ridano dell’orrore; 7. Costruisci il tuo paese.
Per ognuna di queste “mosse”, Ece Temelkuran cita esempi concreti di regimi e populismi ravvisando analogie e differenze e mostrando ciò che è già presente in alcuni paesi — Turchia su tutti — per scongiurarne la riproposizione altrove.
Il primo obiettivo è delineare l’identikit del populista e tracciarne i confini d’azione: dapprima si agisce sottotraccia, in nome delle persone “perbene”, poi si occupano i vuoti di democrazia osteggiando le cosiddette èlite, considerate le vere nemiche del popolo.
In questi casi a farne le spese sono la logica (imperdibile la rivisitazione di cinque ipotetiche fallacie argomentative di un populista) e la comunicazione, spesso inquinata dai social media come “megafono della politica infantile populista”.
Lo stravolgimento della storia, l’occultamento delle notizie, l’assassinio della logica sono dunque alla base della propaganda populista e rimettono in discussione il concetto di obiettività, soppiantato dalla neutralità secondo cui vittime e carnefici dovrebbero ricevere sempre lo stesso trattamento. In questa temperie la post-verità troneggia tronfia.
La potenza del messaggio della giornalista turca risiede in particolare nella capacità di rapportare la propria esperienza e quella di persone a lei vicine al flusso della storia: si spiegano così la rievocazione di episodi di propaganda nera, volti a screditare gli oppositori di Erdoğan (rovinare la vita come “esperimento”), e il ricordo di quando valori alti come vergogna e misericordia, oggi deturpati, erano ancora considerati positivi.
Se nazionalismi e populismi necessitano di una narrazione convincente e di una macchina propagandistica potente, i ribelli in cerca di verità possono fare affidamento su una risata liberatoria, un collante che tiene insieme vite distrutte e che, nonostante tutto, è un “magico e trasformativo strumento di ribellione”.
Ci vuole una fiera e allegra rivoluzione, una gioia nel contrastare l’autoritarismo, per porre un argine all’onda d’urto sanguinaria di un regime: il movimento di Gezi Park, le zie laiche, ma anche la “resistenza carnevalesca” di Grecia e Spagna, rispondono a queste necessità di sopravvivenza.
Al termine dell’enunciazione delle sette tesi, l’autrice ammette che la realtà dei fatti vede le voci critiche come lei costrette a riparare altrove e a non essere profeti in patria, consapevole che “nei momenti felici il concetto di paese si allarga, in quelli bui si restringe”.
In maniera accorata, Ece Temelkuran affianca a trascorsi personali delle circostanziate analisi geopolitiche, dando vita a un trattato di moderna scienza politica, scritto con il metodo e il rigore di una giornalista attenta a fenomeni locali e globali e perciò interessata tanto alle sorti del suo Paese quanto a quelle dell’umanità.
«Adesso siamo un impero e, quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate quella realtà — quanto giudiziosamente volete — noi agiremo di nuovo, creando altre nuove realtà, che voi potrete di nuovo studiare, ed è così che le cose procederanno. Siamo attori della storia […] e voi, tutti voi, sarete lasciati a studiare quello che facciamo.»