Di nodi e di figli

Letteratume
3 min readApr 22, 2021

Il nodo presente sulla copertina dell’ultimo libro di Erri De Luca, A grandezza naturale edito da Feltrinelli, spiega in modo inequivocabile e con innegabile potenza estetica il legame padre-figlio.

Un legame che l’autore riesce a scandagliare unendo storie estreme ed estranee, affascinanti e dolorose, sulla scorta di quanto già sperimentato nel precedente Giro dell’oca. In quel caso Erri De Luca aveva intessuto una trama autobiografica per raccontare, senza compiacimento né autocelebrazione, la sua storia di figlio immaginando di dialogare con un ipotetico erede.

In questo nuovo lavoro convivono invece riflessioni e lampi di esperienze personali (il ‘68 e la contestazione) e storie ed esperienze di padri e figli alle prese con una relazione complessa e spesso problematica, fatta di amore e rivolta, di insubordinazione e legittima difesa, di nodi e disfacimenti.

Si spiegano così la “legatura” di Isacco che si lascia schiacciare per dare peso al padre; kabbèd, che in ebraico significa “dare peso”, è quello che invece non ha fatto Marc Chagall nel ritrarre il proprio genitore, commerciante di aringhe, dalla cui immagine scompaiono quelle mani del cui odore non andava fiero.

Se in Edipo il compimento della vita avviene con l’uccisione del padre, in queste due storie è necessario un superamento, che permetta a Isacco e Chagall di andare oltre.

Nella riscrittura del Torto del soldato, che occupa la parte centrale del libro, c’è poi tutto il travaglio di una figlia che scopre nel padre, considerato fino a quel momento il nonno, un boia nazista, un peso “non scaricabile a termini di legge” che non permette a chi è figlio di dissociarsi dal proprio sangue.

Lo scontro, basato su diverse concezioni di orrore, arte, potere, e sulle interpretazioni che si danno della kabbalá ebraica e delle voragini lasciate dal Novecento, caratterizza la narrazione di questo lungo frammento, tanto straniante quanto illuminante.

L’abilità di Erri De Luca sta nella sua estraneità (“senza essere padre, sono rimasto necessariamente figlio. Non ho sperimentato la responsabilità, la protezione, la prova di educare. Non cambio comportamento con un giovane o un anziano. Da figlio li considero alla pari, dei contemporanei”), che gli permette di essere profondo e attento, didascalico e poetico servendosi di una prosa asciutta e di un ritmo coinvolgente.

Di forte impatto e di fondamentale testimonianza storica è infine la “Cronaca”, posta in chiusura del libro e giustamente dedicata, in un racconto a ritroso, alla figura del medico e pedagogista Henryk Goldszmit, conosciuto col nome di scrittore Janusz Korczak. Questi, in veste di direttore dell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia, decise di seguire i suoi bambini al campo di sterminio di Treblinka, rifiutandosi di essere salvato pur di accompagnare i suoi “figli” negli ultimi passi terreni.

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