Essere immaturi, che bello!
Un viaggio comico e dolente, ansiogeno e surreale, che si spinge a indagare, con lingua viva e sarcastica, la psiche umana e i suoi snodi più reconditi.
È il viaggio di Ferdydurke, romanzo di Witold Gombrowicz tornato meritoriamente alle stampe grazie a il Saggiatore nella pregevole traduzione/reinvenzione di Irene Salvatori e Michele Mari, con prefazione di quest’ultimo e cura e postfazione di Francesco M. Cataluccio, già curatore dell’intera opera dello scrittore polacco.
Il libro, pubblicato per la prima volta a Varsavia nel 1937, è arrivato in Italia giusto sessant’anni fa, affrontando negli anni revisioni e traduzioni (Francia e Argentina su tutti), che hanno perpetuato la fama di Gombrowicz e della sua provocante scrittura, al punto da indurre Milan Kundera a considerare il romanzo “uno dei tre o quattro più grandi romanzi scritti dopo la morte di Proust”.
La storia. Come in un incubo, una mattina il trentenne Gingio viene improvvisamente proiettato nella sua adolescenza, preda delle grinfie di un tutore solerte e bacchettone, tal Pimko, e di goliardiche avventure e reminiscenze con i suoi migliori amici. Prima la scuola, poi casa Giovanotti (famiglia borghese che si dà arie moderniste), prima la resistenza, poi la comoda acquiescenza.
In un’epoca storta e confusa, in un mondo precario, dunque, quale migliore rifugio dell’immaturità?
Gombrowicz scava negli angoli più remoti dell’istinto di Gingio, cerca e trova i nervi scoperti, indugia nell’oscurità, per comunicarci che il più vero desiderio di maturità non può che portare a un sano infantilismo.
La poetica dell’autore di Cosmo, Pornografia e di altre memorabili opere che solleticano le angustie umane (“Il grottesco di Gombrowicz non è altro che un organo di resistenza e di avversione adottato a scopi conoscitivi”, ricorda Bruno Schulz), sembra virare verso l’esistenzialismo, presentando un’originale fusione tra narrazione, riflessione psicologica e dissertazione filosofica.
Temi come paura e nonsense, libertà e straniamento, odio e vergogna, costituiscono l’ossatura di un testo che, facendo perno su un fantastico potenziale eversivo, ci mette di fronte alle debolezze umane e ai conflitti con le istituzioni (ne fanno le spese la scuola e il capitale, la proprietà terriera e la cultura), mostrando gli aspetti tragici del nostro divenire.
Come suggerito dallo stesso Gombrowicz, Ferdydurke non è un pamphlet né polemica, “ma il lamento di un individuo che cerca riparo contro la dissoluzione e che, nel lottare con la forma, si difende dall’imperfezione degli altri, perfettamente cosciente della propria.”
«La normalità non è che una corda da funambolo tesa sull’abisso dell’anormalità. Quanta segreta follia si cela nell’ordine consueto!»