I misteri del potere in Sciascia
Un eremo dalle fattezze di casermone che spunta misterioso e austero tra querce, castagni e ginestre.
Un pittore miscredente che vi si imbatte e poi vi si addentra per capirne l’essenza.
Un prete magnetico e controverso che rende tutto ipnotico.
Todo modo di Leonardo Sciascia è molto più di un classico della nostra letteratura: è uno spaccato sociologico e religioso dell’Italia sul finire del secolo scorso e forse anche di quello corrente, fotografato tuttavia con oltre venti anni di anticipo.
Il protagonista diventa testimone di una sessione di “esercizi spirituali”, così definiti dai partecipanti in osservanza della regola di Ignazio di Loyola: politici, imprenditori, manager, amanti, la meglio borghesia vengono chiamati a raccolta dal criptico don Gaetano e ne restano incardinati dentro schemi e procedure che prevedono solidarietà, riservatezza, equilibrio, una sana dose di ipocrisia e un rosario recitato in quadrato.
L’esito è una sequela di delitti che turba l’apparente quiete monastica, rendendo visibile solo in parte la vischiosa ragnatela del potere. L’arrivo del magistrato, amico di vecchia data del pittore, costituisce un tenue tentativo di svelamento ma le contraddizioni della Chiesa, l’inettitudine di un certo Stato e l’intorbidimento delle anime rendono tutto più complicato.
Non si cerca dunque il colpevole ma si celebra il trionfo dell’imperscrutabilità del potere e della sua natura sotterranea, di cui Sciascia dà un’arguta e cinica rappresentazione attraverso una prosa affilata che tira costantemente in ballo i temi della derisione, dell’inganno, del mistero.
Il romanzo ha assunto fin dalla sua uscita nel 1974 (l’ottimo film di Elio Petri con Volontè e Mastroianni è invece del 1976) i tratti di una convinta denuncia civile pervasa di quella ironia e di quel cinismo che rendono tuttora Sciascia un maestro della nostra letteratura.
Ma sempre c’era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o sfumatura d’irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si raccoglieva era in grado di avvertire. E io l’avvertivo e me ne incantavo: perché mi parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo.