La cultura al rogo
«Tutti gli imbecilli del mio paese mi chiamavano eretico, e a un certo punto mi sono trasformato in eretico per meritarmi il nome con il quale mi rendevano onore.»
Si apre con il dotto riferimento all’intellettuale iconoclasta cinese Li Zhi il saggio con cui Giuseppe Montesano introduce I roghi dei libri di Leo Löwenthal, testo pubblicato per la prima volta in Italia nel 1991 e riportato meritoriamente alla luce quest’anno dalla Treccani Libri.
La provocazione dell’intellettuale anti-confuciano serve a ricordare dal principio che “aprire gli occhi” grazie allo studio, alla conoscenza, alla lettura è l’unico argine contro la quieta acquiescenza verso potere, convenzioni e ideologie (in questo caso la dottrina di Confucio).
A Li Zhi, autore dei libelli Da bruciare e Da nascondere, il destino e una censura cinese allergica al pensiero critico riservarono, ironia della sorte, la messa al rogo dei suoi libri, prima che si suicidasse nel 1602.
Oltre quattro secoli dopo si assiste ancora al tentativo di censurare le voci critiche, o semplicemente spazi di cultura e civiltà, attraverso azioni vili e violente: basti pensare a quanto accaduto alla libreria di Centocelle, Pecora elettrica, colpita per ben due volte da incendi dolosi e, notizia di queste ore, probabilmente destinata a una chiusura definitiva.
È ancor più di attualità dunque riflettere sulla portata rivoluzionaria dei libri e, per contrapposizione sulla forza subdolamente distruttrice di chi si oppone a ogni forma di sapere.
Löwenthal ne dà conto partendo dalla Cina del III secolo a.C. (stavolta vittima è proprio Confucio) e rievocando gli incendi dei libri ebrei nel 1300, l’inquietante e prodromico Wartburgfest, la persecuzione nei confronti degli illuministi e la cieca potenza dell’Inquisizione cattolica.
In anni più recenti, memoria diretta dello studioso ebreo, gli incendi nazisti cominciati il 4 maggio 1933 segnano forse il punto culminante dello scontro tra oscurantismo e progresso.
C’è dell’altro dietro il rogo dei libri: la domanda che aleggia nel testo è se l’atto in sé, gesto violento e censorio, sia l’anticamera di una cesura/censura di più vasta entità. Bruciando i libri — e per estensione bruciando metaforicamente la lettura — si cancellano la storia, la memoria, l’identità, ma soprattutto si tenta di spegnere, con l’incendio, ogni tipo di critica, di curiosità, di creatività.
Ripensando al Montag di Fahrenheit 451 e prendendo in prestito, come fa Löwentahl, le parole di Tacito dagli Annali, l’unica ma non ultima nota di speranza è che un atto di prepotenza non riesca a spegnere la memoria dei posteri e che a questi ultimi giunga accresciuta la “rinomanza dei nobili ingegni” che hanno lottato tra le fiamme.
«Questa è la cosa meravigliosa dell’uomo: che non si scoraggia mai, l’uomo, o non si disgusta mai fino al punto di rinunciare a rifar tutto da capo, perché sa, l’uomo, quanto tutto ciò sia importante e quanto valga la pena di essere fatto.»
Fahrenheit 451