La letteratura? Un’ilare tragedia
Un libro “curioso” (Dino Buzzati), “traboccante di simulazioni, infingimenti, inganni” (Oreste del Buono) e tuttavia un libro impossibile da definire e incasellare.
Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli è qualcosa di più di un flusso di coscienza, in cui la trama gioca il ruolo di parentesi messa al servizio di calembour, arcaismi, neologisimi, invenzioni e acrobazie lessicali.
Lasciando la parola all’autore, all’epoca traduttore, critico e studioso quarantaduenne all’esordio letterario, si potrebbe così etichettare:
«Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un trattatello, un manualetto teorico-pratico; e, come tale, ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore…».
Una lettura tutt’altro che facile, ma il cui completamento dà gioie indescrivibili, direttamente proporzionali alla complessità e all’apparente astrusità del testo; potremmo pensare a un appagamento secondo soltanto al Finnegans Wake di James Joyce (e in questa valutazione entrano in gioco la mole di pagine e la statura “internazionale” del padre di Ulisse).
Tra le pagine non c’è solo Joyce, ma anche Gadda, un po’ di Borges e tanta audacia e sperimentazione figlia dell’esperienza del Gruppo 63, al punto da rendere l’autore unico e in qualche modo capostipite di una scuola letteraria sempre avanti sui tempi.
Manganelli non fa sfoggio di cultura e virtuosismi, non si specchia nella sua prosa caleidoscopica, ma prende per mano l’impavido lettore e lo trascina nell’Ade della scrittura.
«E se taluno troverà codesti documenti inconditi e affatto notarili, non dimentichi che il loro pregio è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero; e pertanto, essi vengono qui proposti come esempi di quel realismo, moralmente e socialmente significativo, di cui il raccoglitore vuol essere ossequioso seguace».
Di cosa tratta Hilarotragoedia? È la storia di un uomo “insocievole, scostato e scostante”, che parla soprattutto a se stesso e al suo fantasma materno, e che nel parlare adopera registri e tonalità inebrianti, parla (e straparla) della sua stessa lingua, non disdegnando una cifra umoristica, magica e surreale.
Tra chiose, postille, ipotesi, aneddoti, contraddizioni e aporie — monumentale la “storia del non nato” — la scrittura si dipana in maniera elegante e funambolica dando vita ad un’opera unica e pregevole.