La lunga strada verso l’uguaglianza
«La razza è la figlia del razzismo, non la madre.»
Tra le tante affermazioni che cercano di circoscrivere e studiare il razzismo, quella di Ta-Nehisi Coates nelle prime pagine del libro Tra me e il mondo (Codice Edizioni), spiega lucidamente dove si annida il problema, pur ribaltando una prospettiva data ormai per acquisita.
La razza — esclusa quella umana — non esisterebbe, se non fosse per i razzisti.
Nascere e vivere nella parte sbagliata di Baltimora, vedere morire amici e compagni di strada, affrontare quotidianamente i pregiudizi, la violenza, perfino la polizia: tutte queste esperienze hanno aiutato Coates a trasformare la paura in azione e l’amarezza in consapevolezza.
Nasce da questo proposito l’intensa lettera-racconto al figlio quindicenne Samori.
Senza infingimenti né consolazione, il giornalista e attivista tratteggia una storia universale del movimento afroamericano per i diritti civili, sospeso tra successi e mancata integrazione, tra sogni spesso disattesi e scontri traumatici; pur riconoscendo il ruolo svolto dai padri di queste battaglie è consapevole che la parità con “coloro che si credono bianchi” è ancora di là da venire.
Il fatto stesso che il corpo di un “nero” non valga quanto quello di un “bianco” è la spia accesa sugli sforzi che è chiamato a sostenere un adolescente in termini di coraggio o autocontrollo: è doveroso dunque ricordare, come fa Coates, le uccisioni di tanti innocenti (da Michael Brown a Prince Jones) ad opera di forze dell’ordine che dovrebbero vigilare e non sparare ad ogni minimo dubbio.
«Così ora sai, se non l’avevi già capito prima, che alla polizia del tuo paese è stata conferita l’autorità di distruggere il tuo corpo».
Oltre dar vita a un profondo e toccante memoir che ha la consistenza dei migliori saggi, Coates indossa i panni di una guida generazionale e prende per mano suo figlio (e con lui tanti giovani), mostrando, con onestà e responsabilità, che il mondo dovrebbe e potrebbe essere migliore, ma che la strada è ancora lunga.