La parabola luminosa di Hamid
Tutte le persone bianche stanno diventando scure, tanto da far saltare ogni confine fra quel che c’è nella testa di ciascuno e quello che si vede nel mondo esterno.
Succede questo ad Anders, uomo bianco che a malapena si riconosce allo specchio, novello Gregor Samsa calato nel contesto di Cecità: è lui il protagonista de L’ultimo uomo bianco, romanzo di Mohsin Hamid tradotto per Einaudi da Norman Gobetti.
La città diventa un posto diverso in un Paese diverso, “con tutta quella gente scura in giro, più gente scura che gente bianca”, la paura si trasforma in furia omicida, l’incertezza in intolleranza e prevale una contagiosa tensione sociale, figlia dello sconvolgimento identitario franato d’improvviso sull’indefinita città in cui si svolge la storia.
Soli ma coesi si ritrovano Anders, che è istruttore in palestra, e Oona, insegnante di yoga: il loro legame, prima di amicizia quindi sentimentale, è l’ultimo baluardo contro la confusione generale e trova residue stille di resistenza tra le mura familiari (la madre di lei, inizialmente reazionaria, si apre al cambiamento diffuso; il moribondo eppur lucido padre di lui dispensa saggezza).
Dopo la favola lieve e feroce di Exit West e la fervida analisi della complessità dei rapporti Oriente-Occidente presente nel Fondamentalista riluttante, Hamid torna con un romanzo potente e delicato, condito da un registro ipnotico e coinvolgente, a parlare di noi e delle nostre paure e provando a immaginare cosa potrebbe accadere se un giorno tutto questo diventasse realtà…
«A volte sembrava che la città fosse una città in lutto, e il Paese un Paese in lutto, e questo si addiceva a Anders, e si addiceva a Oona, dato che collimava con i loro sentimenti, ma altre volte sembrava il contrario, che stesse nascendo qualcosa di nuovo, e abbastanza stranamente anche questo si addiceva loro».