La stagione ignota di Marcoaldi
In tempi di Nobel per la letteratura assegnato a una poetessa — Louise Glück e la sua “austera bellezza” — può aver senso affidarsi a dei versi per sognare ad occhi aperti ma soprattutto per capire un presente caotico.
Grazie a Franco Marcoaldi e al suo monologo drammatico, Quinta stagione, l’ordine del cosmo viene messo a dura prova da una nuova ed enigmatica stagione della vita: sconosciuta, rabbiosa, imprevedibile.
È così che appare all’autore questa fase che “raccoglie, supera e scompone/aprendo il campo a un tempo/indefinito, penoso e scriteriato”, e che lascia intravedere cose mai viste (“sole nell’uragano, arcobaleno nel buio”), inducendo ciascuno di noi a ritrovare il senso comune.
Il lettore, l’uomo, il cittadino resta sospeso tra lo spaesamento e la confusione da un lato e il bisogno di raccoglimento e solitudine dall’altro (“ora però ti è offerta l’occasione/di raccoglierti e fermarti/di osservare e di osservarti”), dimenandosi tra la ricerca di senso e la selva oscura e servendosi di quella “parresia” che aiuta a comunicare l’incomunicabile e a disvelare la natura ambigua e mostruosa del mondo.
Alla rabbia fa da contraltare la fiducia, alla diffidenza l’osservazione, all’inedia l’azione, il tutto mentre avvengono “torti” come le fioriture di rose a dicembre e la comparsa di pomodori a novembre.
Quello di Marcoaldi è un grido sommesso, un vigile flatus vocis che, ricorrendo a Lucrezio e Whitman, Eliot, Nietzsche e numerosi mentori sottotraccia, si fa satira pungente quando vengono chiamate in causa le lotterie dello Stato e la corsa agli armamenti e allora c’è bisogno, come suggerisce un’altra poetessa, Marina Cvetaeva, di una quarta dimensione e di un sesto senso.
Con uno stile discorsivo e teatrale, Marcoaldi prefigura un’Apocalisse del senso e una fine della storia, lasciando intravedere in filigrana la possibilità di svelare l’arcano di questo “artificio ignoto”.
Per questo mi domando: siamo cosí
sicuri che ci sia qualcosa da capire?
O non si tratta piuttosto di sentire?
Sentire con l’orecchio
e con il cuore e tutti gli altri sensi,
compresi i piú segreti e misteriosi,
per dare finalmente corpo
ad affetti, conati, sentimenti?