La vita in versi di Queneau
Chêne et chien. In italiano, Quercia e cane.
È naturale che l’omofonia francese renda più immediato e gustoso l’esercizio autobiografico in versi di Raymond Queneau che, in quest’opera meno nota ma non meno appassionante, delizia il lettore e l’amatore con i suoi inevitabili virtuosismi e le sue felici provocazioni senza tempo.
L’ultima edizione disponibile del breve “romanzo in versi”, edito per la prima volta nel 1937, è quella del 1995 ad opera de il Melangolo arricchita dalla fedele traduzione di Maria Sebregondi, già valida interprete di una larga fetta dell’opera del papà dell’Oulipo, di Georges Perec e a sua volta membro dell’omologo italiano dell’Oplepo.
Preziosa anche l’ultima edizione in lingua originale, edita da Gallimard unitamente alla Piccola cosmogonia portatile.
In definitiva, cosa fa di questo centinaio di pagine un blocco di parole da tramandare?
Intanto, Queneau. Anche se avesse soltanto scritto di cosmogonia (fatto!), di surrealismo (fatto!), di fisica (fatto!), di geografia turistica (fatto!), di semiotica (fatto!), la sua vis umoristica e la sua verve linguistica sarebbero bastate di per sé a rendere questo breve volume degno di propagazione.
In secondo luogo, Quercia e cane è un libriccino che si presta a una felice esegesi di alcuni canoni che saranno poi diffusi nella sua opera futura: innovazione lessicale e varietà stilistica, sperimentazione formale e miscellanea di generi.
Queneau rievoca quindi la sua vita, tra realtà e fantasia, a partire dall’infanzia piccolo borghese, lasciando che episodi quotidiani o realmente accaduti deraglino in vite e soluzioni immaginarie; vero e falso, memoria e storia, incubi e realtà, finzione e illusione, sono tante facce di un unico travolgente prisma.
La grandezza di Queneau sta proprio nel condensare in poche battute ambientazioni e ossessioni, sfide e miti, intessendo la “trama” di giochi di parole fecondi e inesauribili.
Nacqui in quel di Le Havre un ventun di
febbraio
del novecentoetre.
Mia madre era merciaia e mio padre merciaio:
fremevan dal piacer.
Inesplicabilmente conobbi l’ingiustizia
e fui mandato un dì
a balia di una donna, arpìa senza giudizio,
che la tetta m’offrì.