Le affinità elettive di Simenon e Fellini
“Caro Simenon,
da tempo sentivo il bisogno di parlare un po’ con lei, ma il timore, anzi la certezza, che l’avrei soltanto annoiata o immalinconita con i soliti immusoniti sfoghi sul film che sto facendo e relative bambinesche lamentazioni mi trattenevano dal farlo, e rinviavo aspettando un momento di umore più rasserenato per scriverle.”
“Carissimo Fellini, fratello,
consideri questo biglietto come il messaggio di un prigioniero di un lavoro che ho cominciato ai primi dell’anno e che spero di terminare entro la fine dell’anno. Vivo praticamente recluso.”
Basterebbero questi scambi fra i tanti intercorsi in oltre trent’anni tra Federico Fellini e Georges Simenon, a dare l’idea della complice ammirazione e della misurata confidenza sorte tra il regista e lo scrittore, e brillantemente raccolte nel carteggio Carissimo Simenon, Mon cher Fellini, riportato alle stampe da Adelphi nel 2021.
Tutto ebbe inizio a Cannes nel 1960: Simenon era il presidente di giuria del Festival del Cinema che premiò con la Palma d’Oro La dolce vita del Maestro riminese.
Sarà poi lo stesso Fellini a farsi promotore del passaggio di Simenon da Mondadori a Adelphi dopo un primo avvicinamento di Roberto Calasso.
Nel podcast #Indie di Pde è la storica editor Ena Marchi a raccontare la (ri)scoperta del papà di Maigret, avvenuta proprio nella nuova scuderia solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80, dapprima con i “romanzi romanzi”, poi con le storie del celebre commissario. In circa trent’anni pubblico e critica premieranno Simenon e i suoi 162 titoli Adelphi con oltre sette milioni e mezzo di copie vendute e un successo strameritato.
Tornando alla felice amicizia e all’affascinante carteggio, si scorgono tra le righe i temi e le ossessioni legati alle rispettive vite e opere: si passa dalla necessità di creare (“Un creatore è un medium che capta la dimensione fantastica e la rende concreta”) al ruolo imprescindibile della psicanalisi junghiana (la vita come “autorealizzazione dell’inconscio”), dal vuoto che segue un successo all’etica del lavoro (“Quando uno lavora si sente d’improvviso sollevato da tutte le responsabilità della vita collettiva. Tutti lo rispettano. Non è obbligato a dare amicizia, a dare amori, a dare soldi allo Stato…che alibi, il lavoro!”, così Fellini).
Ed è proprio sul crinale tra conscio e inconscio (uno dei nuclei cari al regista) e tra attesa e svelamento (uno dei topoi di Simenon) che si snodano le affabili conversazioni: lasciarsi avvolgere dai passaggi cruciali delle loro lettere, tutt’altro che retoriche o artefatte, regala al lettore il senso di partecipato calore a una funzione laica di condivisione di sapere e piacere, di umanità e quotidianità.
Non meraviglia dunque, come fa notare nella prefazione Claude Gauteur, che le differenze tra il chierichetto di Liegi, a suo agio ovunque, e il prelato di Rimini, sospeso a metà tra Roma e Romagna, si saldino su un terreno comune che aiuta i due a superare gli ostacoli e le avversità e ad apprezzare, senza infingimenti, i rispettivi capolavori.