Le cose: una storia di sempre
«Per prima cosa l’occhio si poserebbe sulla moquette grigia…»
L’incipit di un libro pubblicato nel 1965 da un giovane scrittore e ricercatore francese sembrerebbe quantomeno anacronistico, alla luce degli stili di vita e dei modelli di consumo del Terzo Millennio.
Se però il romanzo si intitola Le cose ed è stato premiato con il Prix Renaudot (una delle più importati onorificenze letterarie d’Oltralpe), e l’autore è Georges Perec, allora lo scenario può cambiare repentinamente.
Le cose è lo spaccato della vita di due giovani, Jérome e Sylvie, sospesi tra la smania di affermazione e l’indolenza di chi sa che comunque nulla gli è dovuto: liberi e desiderosi di libertà, ma allo stesso tempo schiavi dei concetti di status e possesso, derivanti dall’imminente affermazione della Società dei Consumi (non importa se ieri era l’orologio da tasca d’argento e oggi l’ultimo modello di smartphone).
Considerato non del tutto correttamente come una “testimonianza sociologica” nella temperie del Maggio ’68 — lo ricorda egregiamente Andrea Canobbio nella prefazione — il romanzo ha in nuce la smodata passione di Perec per le molteplici connotazioni della lingua e per i diversi significati che assumono le cose ( «L’impressione che ho provato, scrivendo questo libro, è stata quella di trovarmi in un terreno straordinariamente melmoso, una specie di pantano, dove ho sguazzato. »)
Rendendo omaggio al Flaubert di Educazione sentimentale e al Barthes di Miti d’oggi, Perec dimostra di saper mediare tra la “freddezza appassionata” del romanziere e la vocazione semiotica dello studioso, dipingendo un quadro d’insieme che a distanza di mezzo secolo può essere gustato con pari soddisfazione.
Come fa notare Canobbio, Perec usa tre tempi verbali nel tratteggiare desideri, azioni e prospettive dei giovani protagonisti: il condizionale presente nella prima parte (utopia paradisiaca); il tempo imperfetto nella seconda (frustrazione del desiderio); il futuro nell’epilogo (godimento insipido).
La tensione tra l’aspirazione ai negozi e ai beni di lusso, visti come una Terra Promessa, e la consapevolezza di abitare un “universo appassito”, testimonia alla perfezione la volontà di un giovane ma già virtuoso Perec di far vivere ai personaggi il proprio tempo con una discreta dose di fatalismo (quanta autobiografia?).
«Il loro amore per lo star bene, per lo star meglio, si risolveva il più delle volte in uno sciocco proselitismo: allora discorrevano a lungo, con gli amici, sulle virtù di una pipa o di un tavolino, ne facevano oggetti d’arte, pezzi da museo. »
Le cose è dunque un romanzo che non risponde alle prerogative di un saggio e che non possiede la carica visionaria e propositiva di un manifesto, ma che mette a fuoco la potenza estetica, talvolta erotica, del mondo degli oggetti.
Per Georges Perec è solo il primo passo per entrare di diritto tra i grandi della letteratura.