Nat Tate: un vero artista (letterario)
Alto, affascinante, attraente senza essere narcisista, ricercato nel vestire, eclettico e moderno al punto giusto.
Questo era Nat Tate all’apice della fama: è lui il protagonista della preziosa monografia Nat Tate. Un artista americano, scritta da William Boyd e pubblicata, quest’anno, per la prima volta in Italia da Neri Pozza.
Il padre di Nat scomparve in mare prima della sua nascita avvenuta nel 1928, la madre fu travolta e uccisa da un furgone delle consegne e il figlio ne apprese traumaticamente la notizia da un amico mentre giocava a softball.
Suoi genitori adottivi divennero Irina e Peter Barkasian, che lo accolsero nella splendida residenza estiva di Windrose. Fu soprattuto Peter che, vedendo in lui l’astro nascente dell’arte contemporanea, decise di iscriverlo alla rinomata “Hoffmann Summer School”, dal cui titolare il giovane Nat apprese stravaganze ed eccentricità.
Ci sono quindi tutti gli ingredienti per tratteggiare la breve e tragica esistenza di un genio e per metterne in luce i fortuiti e accidentali incontri con il gotha dell’arte. Avviene infatti per puro caso, negli anni ’50, l’incontro tra le sue prime opere — i disegni della serie “The Bridge” — e personalità come Frank O’Hara e la gallerista Janet Felzer. Quest’ultima gli dischiuse le porte della sua factory, esponendone i quadri insieme a quelli di artisti del calibro di Heuber, Krasner, Gottlieb e consentendogli di entrare quotidianamente in contatto con il milieu culturale di Manhattan e del Greenwich Village.
Quello di Nat Tate è stato un processo creativo fatto di azione e distruzione, che lo ha portato a un passo dalla maturità espressiva e che ne ha fatto emergere quell’inquietudine di fondo e quella fragilità che sono nate insieme a lui e al suo destino segnato.
A completarne l’opera di formazione/disgregazione sarà infine l’incontro con Braque, Picasso e con il loro vero talento: ultima e decisiva avvisaglia che non era il timore o l’inadeguatezza a bloccarne l’estro, ma il senso di vergogna, con il quale gli sembrò impossibile convivere. Si spiega così il rogo definitivo che accompagnerà l’intera produzione nel gennaio del 1960, prima che il fumo lasci idealmente spazio a un unico e misterioso dipinto, autentico testamento di una personalità controversa.
Ora se l’appassionato d’arte o il profondo conoscitore della materia si sentirà spiazzato dal non riconoscere o ricordare Nat Tate e dal leggere nomi reali accostati a nomi piuttosto “introvabili”, è solo perché William Boyd si è affidato alla ricostruzione diaristica di un certo Logan Mountstuart.
O forse perché c’è del vero fino a un certo punto o ancora più verosimilmente perché “il vero esiste solo in quanto può alimentare il falso, la magnifica finzione in cui consiste il potere proprio della letteratura.”
Alla luce di una magnifica finzione artistico-letteraria bisogna dunque immergersi totalmente — forti di una sana sospensione dell’incredulità — in questo raffinato romanzo, corredato da immagini e disegni, sapendo che ce ne attende un altro in chiusura, ovvero la postfazione del (vero) autore, grazie alla quale è inoltre interessante rilevare come grande merito nel diffondere la storia l’abbiano avuto David Bowie e la sua casa editrice 21 Publishing.
Nat Tate. Un artista americano si colloca così in un filone letterario che fa del gioco e dell’artificio le proprie cifre distintive, coinvolgendo il lettore in un impegnativo e produttivo sforzo di riflessione su finzione e autenticità.