Pintor: memorie di un altro secolo
Luigi Pintor è stato giornalista, scrittore, antifascista, deputato comunista e indipendente e tra i fondatori del quotidiano il Manifesto.
In quel piccolo gioiello letterario che è Servabo, pubblicato giusto trent’anni fa da Bollati Boringhieri, Pintor rievocava con nitore e sincerità invidiabili uno spaccato della sua vita e della sua lunga militanza politica: cinquant’anni in cui la guerra e la ricostruzione, la passione e i sogni, l’etica e l’impegno hanno convissuto trovando un fecondo punto di equilibrio.
L’abilità dell’autore, che apre lo scrigno dei ricordi partendo dall’infanzia sarda, sta nell’attraversare pagine di storia senza nulla concedere alla retorica ma impregnando episodi di vita quotidiana, pubblica e privata, di una raffinata scrittura letteraria.
L’addio all’ “isola felice” e la morte del fratello, la prigionia e il ritorno alla normalità (“voleva dire per me esami di storia e filosofia, fare esercizi meccanici sul pianoforte”): tutto concorre a plasmare una giovane ma già energica coscienza, portandola ad aspirare a quegli afflati di libertà, giustizia e uguaglianza dapprima trovati nel P.C.I. e infine inseguiti nell’esperienza, eretica agli occhi del partito, all’interno del gruppo del Manifesto.
Consapevole che “stare da una parte diventerà più complicato ma più necessario”, Pintor rilegge le sue prime esperienze giornalistiche all’Unità e le prime amicizie individuando quel filo rosso che nella seconda parte della carriera lo porterà ad essere “maestro involontario” e coscienza critica di una sinistra ormai allo sbando.
Di particolare impatto emotivo e familiare è il capitolo dedicato al dolore, in cui la lunga malattia della prima moglie lascia intravvedere quella sottile capacità di descrivere con pudore e delicatezza gli eventi più intimi. Lo stesso understatement accompagna la fervida penna di Pintor nelle pagine “politiche” in cui, in continuità con quanto mostrato nelle sue azioni, svettano lo spessore umano e il rigore etico.
«Scritta sotto il ritratto di un antenato mi colpì, quand’ero piccolissimo, una misteriosa parola latina: servabo. Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile.»