Zweig e lo scacco matto all’Europa

Letteratume
2 min readMar 9, 2021

Un campione goffo e taciturno, incolto e avido. Uno sfidante mite e raffinato, agile e inquieto.

Su un piroscafo in viaggio tra Stati Uniti e Sud America si consuma uno scontro titanico tra due visioni del mondo e di un’epoca, rappresentate simbolicamente su una scacchiera composta da sessantaquattro caselle.

È la Novella degli scacchi, ultima e forse migliore opera narrativa di Stefan Zweig, scritta prima di morire suicida nel 1942 nell’esilio di Petrópolis.

Il gioco degli scacchi, metafora della vita e della storia, diventa dunque ossessione, un mistero che si trasforma in angoscia: da un lato Czentovic, tanto ottuso quanto talentuoso, dall’altro il dottor B., austero e reduce da una asfittica prigionia nazista.

Tra i due protagonisti si staglia un Io narrante che, sullo sfondo di orchestre e lustrini cui fanno da contrappunto flashback e brutali ricordi di lager, accompagna il lettore in un percorso che non è solo strategico ma storico e brutalmente umano.

La storia. Un uomo misterioso e sconosciuto, che non per falsa modestia sostiene di non giocare da vent’anni, decide di sfidare l’imbattibile campione degli scacchi, abile e talentuoso tra re ed alfieri ma incapace “di collocare il suo campo di battaglia nello spazio sconfinato della fantasia”. L’incontro, tutt’altro che ordinario, raccoglie intorno a sé uno stuolo di curiosi e cultori, che assistono a loro insaputa a una metafora dell’orrore dei tempi (siamo nei tetri anni Quaranta).

Vedere i giocatori all’opera — Czentovic impassibile (“una creatura priva della parola che ha improvvisamente trovato il linguaggio della saggezza”) e il dottor B. in trance — rafforza infatti la sensazione di trovarsi di fronte, come rievocato da Maria Anna Massimello nella postfazione dell’edizione Garzanti, allo scontro tra la forza schiacciante di Hitler e la componente colta e democratica dell’Europa.

Con tensione narrativa e maestria nello stile, Zweig ripiomba e ci fa ripiombare in anni bui, che condizioneranno milioni di esistenze (non ultima quella dell’autore), generando in tutta Europa una patina di inquietudine e di morte, di angoscia e di ossessione, leggibili anche negli sguardi e nelle azioni dei protagonisti.

«E allora non è maledettamente facile ritenersi un grand’uomo, se non si è sfiorati dalla più pallida idea che siano mai esistiti un Rembrandt, un Beethoven, un Dante o un Napoleone?»

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