Un funambolo al servizio del pensiero
Mostrare la parola, farla esplodere in tutti i suoi significanti, mostrarci cosa c’è dentro, dietro, ma anche davanti, ai lati e negli interstizi.
Alessandro Bergonzoni ha dedicato e continua a dedicare vita e opere alla feconda manomissione del linguaggio, dimostrando che noi siamo le parole e che la perfetta aderenza tra uomo e verbo deve far sì che quest’ultimo nasca, cresca, viva e muoia proprio come un essere umano.
In Aprimi cielo. Dieci anni di raccoglimento articolato, raccolta di pensieri e riflessioni tratti dall’omonima rubrica tenuta sul Venerdì di Repubblica, Bergonzoni dà libero sfogo alla verve lessicale e alla prorompente visionarietà, parlandoci di figli che mancano (“ma è questione di mira”), di spazzolini da menti, di galline militari che depongo armi anziché uova, di dottori che curano incertezze e di ricette per andar di anima (e non di corpo).
Seppur ammantati dalla fascinazione linguistica, ci sono temi, come la guerra, la giustizia, il fine vita, i diritti umani, che lo stesso scrittore bolognese affronta da sempre nei suoi interventi pubblici, spesso al fianco di Ong e associazioni benefiche (si pensi alla nobile testimonianza per la Casa dei risvegli Luca de Nigris).
L’ode a Stefano Cucchi (“Potrò vedere gli alberi con gli occhi, ma prima vorrò credere che alberi con gli occhi esistono”) e il diario della bomba inesplosa (“Sul cuscino. È l’ultima? Fate silenzio, appena, luce, mettile giù. Spingi, non ho capito, stamattina. Ancora, qui qui, tra i due muri, guarda, il cielo”) sono autentiche perle e la conferma, qualora non fosse già chiaro, di trovarsi di fronte a un talento alieno da qualsiasi classificazione (scrittore, autore, attore, sceneggiatore, poeta e, negli ultimi anni, sublime artista).
Decisione e recisione, tempo e dimensioni: questi e altri ingredienti fisici e metafisici rendono la lettura di Aprimi cielo appagante per la mente e per lo spirito, purché ciascun monologo non venga derubricato come puro divertissement ma conservato e tramandato come stimolo a guardare oltre.
Difatti ciascun gioco di parole, che prima ancora è di pensiero, non è mai fine a sé stesso: è così dai tempi teatrali di Zius Zigotes, Anghingò, Madornale 33 e da quelli letterari delle Balene restino sedute, Bastasse grondare, Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna bambino animale o cosa e L’amorte (poetica e poietica).
In Bergonzoni la circolarità delle parole, che dapprima servono a connotare alcune cose e poi gli esatti contrari, ci invita a schivare le banalità e a interrogarci sul non detto, e a chiederci, in estremo, “se la morte è l’unità di misura della vita o viceversa, e se, saputo quali sono i motivi di un decesso si possano capire anche le cause di una esistenza.”
«Mentre li abbracci non piangere per certi alberi, salici.»