Una storia d’amore e d’oppressione

Letteratume
3 min readJul 28, 2020

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«Nessuno scrittore ha insegnato alla Ortese questa callida acredine del discorrere, quella volatile furia e insieme quella macerazione labirintica che danno, fin dalle prime pagine, una letizia aspra, inquieta, insonne e insieme allucinatoria. Il linguaggio letterario è l’ultima e definitiva forma di incatenamento, di carmen, l’ultima forma che agisce e costringe l’inesistente a esistere; e l’incantesimo dell’Iguana, appunto, agisce. Volendo si può chiamare ‘romanzo’ questo libro; ma forse è inutile. Ha qualcosa della fiaba, e insieme della ballata, della filastrocca, dell’incubo, del sogno, del delirio; appunto, è un incantesimo che agisce.»

Basterebbero le parole di Giorgio Manganelli, impresse sulla quarta di copertina dell’ultima edizione Adelphi, a immortalare e a rendere i dovuti onori al “romanzo” L’Iguana di Anna Maria Ortese, pubblicato per la prima volta oltre mezzo secolo fa, ma ancora vivo, fresco e pulsante come le migliori favole eterne.

Chiunque voglia mollare gli ormeggi dell’ordinario per approdare alle lande dello straordinario, non deve che ripercorrere la rotta del protagonista, Aleardo detto Daddo, rampollo di famiglia saggia e nobile, che lascia Milano per scoprire la remota isola porteghese di Ocaña e i suoi bizzarri abitanti, su tutti l’enigmatico don Ilario.

Spinto dall’avvincente sfida di trovare un manoscritto “primitario, magari anormale”, lanciatagli da un suo amico editore, Daddo incapperà gioiosamente e misteriosamente proprio in quello scherzo da lui stesso paventato (“Ci vorrebbero le confessioni di un pazzo, magari innamorato di un’iguana”).

La favola romantica, connotata da tinte ironiche e stranianti, si snoda proprio nell’incontro tra il giovane milanese e la servetta di una umile e sperduta dimora che aveva conosciuto altre glorie.

La ricerca di nuove terre, di storie originali e di un diverso punto di vista sul mondo, tipica di un colonialismo dal volto umano, si scontra dunque con una “bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori”.

La collisione fra due realtà contrastanti — la ricchezza e la bontà di Daddo da un lato, l’oppressione e l’orrore dell’Iguanuccia dall’altro — ci pone di fronte all’atavico interrogativo sulla natura umana e le sue debolezze: quanto dolore siamo disposti ad accettare e cosa siamo disposti a fare per inseguire un sogno o un amore? Sarà questa la sorte del giovane protagonista, ammaliato dalla bellissima e respingente creatura, archetipo di ogni (dis)umana fantasticheria.

Tra atmosfere fantastiche e vertiginose, tra delirio e rarefazione, la penna di Anna Maria Ortese scivola via con grazia e mistero, dando vita a un racconto fluido che resta impresso nella memoria grazie anche a dei personaggi memorabili nella loro affascinante umanità.

Una delle migliori pagine della nostra letteratura.

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