Yoga: meditare per vivere
Salire verso il basso, scendere verso l’alto, tirare quando si spinge, spingere quando si tira, tenere il piede in due staffe, salvare capra e cavoli, volere una cosa e il suo contrario.
In definitiva, far avanzare i piedi all’indietro.
È così che bisognerebbe leggere Emmanuel Carrère e il suo Yoga, pubblicato in Italia da Adelphi con l’ottima traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, dopo mesi di battage promozional-polemico in cui critici francesi e internazionali si sono interrogati sul senso di realtà delle sue narrazioni e sulla dirimente dicotomia vero/falso.
Ha forse senso stabilire quanta verità, quanta accuratezza, quanta verosimiglianza deve essere presente in letteratura? O meglio, aspetti legali a parte, sono giuste le geremiadi dell’ex moglie, la giornalista Hélène Devynck, che ha accusato Carrère di aver mentito su più fronti?
Ecco perché così come lo scrittore francese suggerisce di affrontare la pratica della meditazione, allo stesso modo bisogna leggere in filigrana Yoga, ovvero andando a “vedere, con il minor numero di pregiudizi possibile o, quanto meno, con la consapevolezza dei propri pregiudizi.”
Nell’introdurci nei meandri della sua psiche, passando per l’antica pratica meditativa — nel corso dello sviluppo narrativo ne verranno fornite decine di definizioni — Carrère si mette a nudo senza ipocrisie e infingimenti, titillando a più riprese il proprio ego e ammettendo appunto di voler scrivere non solo per diventare una persona migliore ma soprattutto per essere acclamato e ammirato.
Nel mescolare saggiamente autobiografia e prosa documentaristica, l’autore non teme di mostrare come una vita apparentemente piena ed armoniosa, borghese e intellettualmente attiva, può condurre alla catastrofe fisica e psicologica (elettroshock, cartelle cliniche e pensieri suicidi si alternano senza soluzione di continuità); allo stesso modo continua a cercare la forza per evadere dall’asfittica prigione mentale, ricorrendo a possibili vie di salvezza che possono assumere le sembianze di un documentario in Iraq o, in maniera più risolutiva, di un viaggio-inchiesta a contatto con giovani profughi sull’isola di Leros.
Proprio il determinante incontro con la volontaria Frederica, detta Erica, alle prese con la sua ombra, e la rievocazione di Martha Argerich che suona l’Eroica di Chopin, sono tra le pagine più vivide di una storia che procede per scatti e frenate, sbalzi e scarti, quasi a voler restituire gli inafferrabili andirivieni della mente di Carrère.
Del resto, la storia è innervata di riflessioni su scrittura, psicanalisi, amicizia e terrorismo senza tralasciare l’importante fil rouge che tiene insieme due diverse “degenze”: quella in un ritiro meditativo Vipassana e quello nella casa di cura Sainte Anne.
La chiave di volta di una storia tanto avvolgente quanto felicemente narcisistica è racchiusa in un nitido pensiero che lo scrittore francese rende con il proverbiale stile accattivante: “A volte mi è stato detto che ci vuole coraggio a dipingere se stessi in una luce poco lusinghiera, come faccio nei miei libri. Non è vero (…) mi fermo quando voglio, dico e taccio quello che voglio, sono io a decidere dove posizionare il cursore. Quando invece scrivi di qualcun altro passi, o puoi passare, dalla parte del torturatore, perché chi scrive ha pieni poteri e la persona di cui scrive è alla sua mercé.”